Wolfgang Amadeus Mozart — Clarinet concerto in A maggiore, K. 622 (1791)

Mozart e il Clarinetto: quando il 1791 suona come il 2025

di Andrea Volpe

Immagina di essere nel 1791, Vienna, autunno inoltrato. Mozart ha appena finito Il Flauto Magico, sta lavorando al Requiem (che non completerà mai), e in mezzo a questo turbine di genio e urgenza scrive, in dieci giorni, uno dei brani più moderni mai concepiti: il Concerto per clarinetto e orchestra in La maggiore KV 622.

Due mesi dopo, Mozart morirà. Ma nel frattempo regala al mondo un capolavoro che ancora oggi vibra come una colonna sonora contemporanea.

È l’ultima composizione per strumento solista, scritta per l’amico clarinettista Anton Stadler, un tipo brillante e un po’ scapestrato, che amava sperimentare strumenti nuovi. Proprio lui inventerà il clarinetto di bassetto, una versione estesa del clarinetto tradizionale, capace di toccare note basse e vellutate che sembrano sospese tra malinconia e sogno.

E poi c’è lei: la seconda parte, l’Adagio.
Se non la conosci, anche se la musica classica non è tra i tuoi generi preferiti, prova ad ascoltarla. Chiudi gli occhi. Ti ritroverai altrove, in un film che non esiste, o meglio, che potrebbe essere girato ai giorni nostri. 

Perché questo movimento centrale non ha tempo: è minimalista prima del minimalismo, cinematico prima del cinema. Le frasi del clarinetto si muovono lente, liquide, come pensieri che fluttuano nell’aria. L’orchestra resta in punta di piedi, cullando un’emozione che non si osa dire a voce alta. 

E se anche le tue orecchie non sono così allenate, troverai di tutto in quell’Adagio. Dolcezza, malinconia e l’idea che la bellezza sia fragile eppure infinita. Mozart lo scriveva due mesi prima di morire, ma non c’è traccia di disperazione: solo una serenità che sfiora la trascendenza.

Ed è proprio qui che sta la modernità di Mozart. Il suo linguaggio armonico è classico, ma la sua sensibilità è sorprendentemente “post”. Sembra comprendere già come la musica, se lasciata respirare, possa raccontare l’anima meglio di milioni di parole. Non a caso, registi come Sydney Pollack o Barry Levinson l’hanno scelta per dare voce alle emozioni più delicate dei loro film.

Oggi, i grandi clarinettisti, da Sabine Meyer a Martin Fröst, tornano a suonarla sul clarinetto di bassetto, recuperando quei registri profondi che Stadler e Mozart avevano immaginato insieme. Ogni nota sembra un sussurro tra amici che non si dimenticano mai.

Il Concerto per clarinetto KV 622 è un viaggio dentro la bellezza pura, quella che non ha tempo, né mode. E se la seconda parte suona così attuale, forse è perché la vera modernità, quella che resta, non ha bisogno di effetti speciali: basta un clarinetto, un’orchestra e un cuore che sa ancora ascoltare.

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